Ricerca sulle attività nelle carceri lombarde: quasi tutte gestite dal volontariato
Home > NOTIZIE VARIE

 

NOTIZIE VARIE

Ricerca sulle attività nelle carceri lombarde: quasi tutte gestite dal volontariato  

16/04/2019 


Un lavoro quotidiano, faticoso, utilissimo, ma ancora troppo oscuro, e, a tratti, disorganizzato. È quello che volontari, organizzazioni non-profit, istituzioni pubbliche e imprese, portano avanti nelle carceri milanesi. Un'attività che fino a oggi non era mai stata mappata, né studiata in modo organico.

A "sanare" il buco nero, cercando anche di misurarne il valore aggiunto creato, la ricerca "Creare Valore con la Cultura negli istituti di pena", condotta dall'Università Bocconi in collaborazione con il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria della Lombardia con il sostegno di Fondazione Cariplo. Un'opera certosina, dato che i ricercatori hanno mappato tutte le "attività trattamentali" (così sono chiamate in gergo carcerario) condotte nei tre istituti di pena milanesi di Bollate, Opera e San Vittore.

Lo scopo? Analizzarne le caratteristiche, misurarne il valore, individuare le criticità. Anche perché, come ha detto l'ex Pm, Gherardo Colombo, autore della prefazione del volume, purtroppo oggi "si cambia nonostante il carcere".

La prima "verità" che emerge dal report, la enuncia Filippo Giordano, ricercatore dell'Invernizzi Center for Research on Innovation, Organization, Strategy and Entrepreneurship, Università Bocconi (Icrios), coautore dello studio: "Senza i volontari, in massima parte provenienti dal Terzo Settore, non ci sarebbe reinserimento dei detenuti".

Un assioma suffragato dai numeri, visto che l'80% delle varie attività derivano da iniziative provenienti dall'esterno, mentre solo il 20% è attivata da impulsi provenienti dall'interno degli istituti di pena. Un'oggettività che, se da un lato aumenta la fiducia nell'essere umano, dall'altra rivela il nervo scoperto dell'istituzione adibita alla "rieducazione": il mondo del carcere è impermeabile, autoreferenziale e tendente all'isolamento. Il che è un male, visto che "per i detenuti è fondamentale avere un rapporto con persone provenienti dall'esterno, con elementi che non appartengono al loro "mondo" delinquenziale", spiega Giordano.

Da ciò deriva un'altra criticità: se è l'esterno a proporre, non sempre l'offerta corrisponde ai reali bisogni dei detenuti. Inoltre, spesso si hanno sovrapposizioni e si registra una mancanza d professionalità dei pur volenterosi operatori. Tutte disfunzioni che potrebbero essere mitigate se ci fosse un disegno unitario a gestire le proposte, che a oggi manca.

Colpisce poi che "l'85,5% delle attività ha per beneficiari gli uomini detenuti, il 30,56% le donne, mentre quasi il 18% coinvolge persone transessuali". Nella disparità di possibilità tra uomo e donna, si riverbera infatti la disparità del mondo fuori carcere: se i maschi possono giocare a calcio, coltivare le piante, allevare i cavalli, per le femmine le possibilità sono di imparare a cucire o cucinare. Come se le donne non amassero gli animali o lo sport!

"In carcere si vedono riflessi tutti i problemi della società", sottolinea Giordano, "per questo serve un rapporto dialettico tra "il dentro e il fuori", perché una società che non dialoga col carcere, è una società che nascondere la polvere sotto il tappeto".

Infine, altro tasto dolente è la quasi totale assenza del mondo dell'imprese dall'universo carcerario: "queste ultime costituiscono una piccola percentuale anche nell'attuazione di attività di tipo lavorativo (1 su 4), segnalando una scarsa interazione e il mancato sfruttamento delle potenzialità del tessuto produttivo milanese", si legge nel rapporto, che certifica come "a offrire più occasioni lavorative alla comunità detenuta sono le cooperative sociali di tipo B (75%)". In effetti il carcere è poco "cool": per un'azienda è più impattante sponsorizzare un ospedale in Kenya (e per fortuna lo fanno) che pubblicizzare il fatto di aver dato da lavorare a dieci ex rapinatori.

Fino a qui le note negative, tuttavia bisogna considerare anche i molti aspetti positivi delle tre carceri milanesi, le quali rappresentano il punto più avanzato del sistema carcerario italiano, basti pensare che da sole ospitano il 14% di tutte le attività pensate per i detenuti. Una testimonianza dello stretto rapporto tra Terzo settore (che in Lombardia è assai attivo) e benessere dei detenuti. I tre istituti milanesi, in particolare, sono un universo composto da funzionari dalla mentalità aperta, come Luigi Pagano, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Lombardia, e da una rete di quei 619 volontari, coinvolti in circa il 74% delle attività in modo esclusivo o al fianco di personale retribuito, che nel 2017 ha investito 36.078 ore della propria vita. Un'enormità. Inoltre Opera, San Vittore e Bollate hanno avuto accesso a un (relativamente) alto livello di finanziamento: nel 2017 hanno infatti ricevuto complessivamente 3.109.195,09 di euro, il 75% dei quali provenienti da fonti pubbliche.

A chi giovano le attività - Circa i beneficiari delle attività trattamentali, naturalmente i primi sono i detenuti, ma non sono certo gli unici. Nei reclusi, le attività "generano incremento di conoscenze e competenze; miglioramento del coinvolgimento alla vita detentiva; aumento della consapevolezza di sé; riduzione della solitudine e miglioramento delle relazioni interne; maggiore fiducia nello staff e istituzione penitenziaria; miglioramento della relazione tra carcere territorio; miglioramento del benessere psico-fisico; aumento delle abilità personali; miglioramento dei rapporti con la famiglia; facilitazioni nella ricerca di un lavoro/stage e di una retribuzione".

Ma se il miglioramento della qualità di vita dei reclusi era scontato, non così la crescita di tutta una serie di altri indici che riguardano "il resto del mondo", quali per esempio i loro parenti rimasti fuori, o le ricadute positive sullo staff della Polizia Penitenziaria, che ha rilevato "una riduzione del carico di lavoro, che contribuisce a rendere meno usurante il lavoro del poliziotto penitenziario; un miglioramento della relazione detenuto-agente; maggior produttività degli agenti; aumento del benessere lavorativo".

A guadagnarne, poi, anche gli stessi istituti di pena grazie alle migliorie che vengono apportate agli edifici e alle dotazioni. In primo luogo, si tratta di "donazioni di attrezzature (il 30,5% delle attività ha effettuato donazioni all'istituto), di suppellettili (16,8%) o di materiale per varie attività (6,3%), quantificate per un valore complessivo di 63.855 euro nel solo 2017.

In secondo luogo, il 23,2% delle attività che hanno apportato migliorie ha realizzato 163 interventi di imbiancatura delle pareti, l'11,6% ha realizzato interventi di vere e proprie ristrutturazioni, mentre un altro 11,6% ha contribuito, con 25 interventi, alla riqualificazione di aree verdi e spazi comuni". Insomma, far stare bene i detenuti, migliora la qualità di vita di quanti lavorano con loro, dei loro familiari, degli operatori e della società tutta.

it.businessinsider.com