Direttore carcere Opera Silvio Di Gregorio: detenuti in metamorfosi, continuare a tenerli in carcere significa aumentare sempre più la distanza con la società civile
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Direttore carcere Opera Silvio Di Gregorio: detenuti in metamorfosi, continuare a tenerli in carcere significa aumentare sempre più la distanza con la società civile  

22/08/2018 


Il direttore del carcere di Opera: insegnare un lavoro investimento di giustizia, che serve a tutta la società.

Si potrebbe cominciare con il dire che in piena crisi occupazionale non si sente quella grande urgenza di formare al lavoro i detenuti...

Questa è l'obiezione più ricorrente con cui mi trovo a fare i conti quando parlo del lavoro in carcere. Secondo quest'obiezione, la crisi non consente azioni a favore di chi è detenuto o ex detenuto, ma è una semplificazione che dobbiamo superare. Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera (in passato, direttore a Parma e capo dell'ufficio del personale e della scuola di formazione del corpo di Polizia Penitenziaria che dipende dal ministero della Giustizia) ha due stelle fisse: la Costituzione e il Vangelo. Oggi, questo cattolico cresciuto tra i salesiani parlerà di formazione per il lavoro nelle carceri al Meeting di Rimini. Lo abbiamo incontrato.

 

Sarà pure semplicistico, ma è umano provare diffidenza verso un criminale...

Ognuno di noi, almeno dopo essere stato toccato da un crimine, ha invocato il carcere quale panacea e ricucitura dello "strappo", ma per la nostra Costituzione "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Discende da una concezione personalista, anche cristiana.

 

Quali sono gli ostacoli che incontra questo percorso formativo?

La difficoltà del mondo "esterno" di capire che si stanno formando delle persone nuove e diverse, che hanno compiuto un percorso interiore: esso li rende consapevoli del male commesso e stimola l'ambizione ad assumersi la propria responsabilità. Tuttavia, se una persona ha compiuto o sta compiendo questa metamorfosi, continuare a tenerla in carcere significa aumentare sempre più il gap con la società civile. Il carcere può giustificarsi, come diceva il cardinale Martini, solo con l'esigenza di proteggere la società da un pericolo grave ed attuale.

 

Come capite che un condannato non è più pericoloso?

Intanto è necessario che ogni colpevole comprenda il male che ha commesso. Riconoscere l'errore vuol dire crearsi le necessarie basi etiche e morali che consentano di avere una "coscienza" in grado di permettere l'esercizio di un consapevole "discernimento". Questo vuol dire che il colpevole deve "cambiare" radicalmente il proprio stile di vita. Non è un approccio buonista: la pretesa del ripianamento del danno, per quanto possibile, deve sempre trovare soddisfazione piena. Ma san Giovanni Paolo II insegna: non vi è Giustizia senza Misericordia.

 

Come si realizza questo connubio?

Anche con la formazione al lavoro, che confluisce nel "trattamento rieducativo", come l'istruzione, la religione, le attività ricreative e sportive e i rapporti con la famiglia e la comunità esterna. Lo prevede la legge 354/75. L'ordinamento penitenziario ha avuto nel tempo una diversa concezione del lavoro dei detenuti: all'inizio del secolo (R.D. 18 giugno 1931 n. 787) il lavoro era previsto come obbligatorio. Lavorare rientrava nella sfera afflittiva della pena. L'articolo 15 della legge 354 prevede che il lavoro debba essere uno degli elementi del trattamento, anche se per molto tempo non è stato attuato il principio costituzionale della proporzionalità della retribuzione alla qualità e quantità del lavoro prestato; fino alla Legge Gozzini, era prevista una trattenuta di 3/10 a favore della cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime dei delitti. Nel 1993 la Legge n. 296 ha modificato gli artt. 20 e 21 dell'ordinamento penitenziario introducendo l'art. 20 bis: il lavoro dei detenuti non è più appannaggio esclusivo dell'Amministrazione Penitenziaria. La Legge Smuraglia ha introdotto sgravi fiscali e contributi.

 

Com'è cambiata concretamente la figura del detenuto lavoratore?

Con la sentenza 1027 del 30 novembre 1988 della Corte di Cassazione è stato affermato il principio della sostanziale parità del lavoratore detenuto al lavoratore non detenuto.

 

Il detenuto ha davvero gli stessi diritti del lavoratore "esterno"?

Gli stessi. Retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, diritto alle ferie, diritto alla sicurezza, diritto agli assegni familiari, diritto all'indennità di disoccupazione, diritto alla formazione professionale e all'avviamento al lavoro, diritti sindacali.

 

Anche nella formazione?

L'art. 20 della legge penitenziaria prevede che i detenuti e gli internati siano incentivati a partecipare a corsi di formazione professionale, onde fare in modo che il detenuto abbia l'opportunità di qualificarsi e di acquisire quelle competenze che gli possano rendere più facile l'inserimento nel modo del lavoro libero. Il trattamento penitenziario deve quindi avere anche la lungimiranza di far incontrare la domanda con l'offerta lavorativa. Da qui la necessità di una collaborazione con le Regioni.

 

Concretamente, cosa fate a Opera?

Lo strumento degli stage sta per essere messo a frutto con il duplice obbiettivo di eliminare le differenze "dentro-fuori" ed offrire le medesime opportunità per il raggiungimento di una sostanziale parità in ambito lavorativo. Incentiviamo quanti si preparino seriamente ad assumersi la responsabilità di impegnarsi per la collettività e di "smascherare" invece coloro che ancora non hanno maturato il proprio intimo e profondo convincimento al cambiamento necessario a un ritorno nella società civile.