Corso di cucina vegana nel carcere di Parma: un percorso di riabilitazione per le persone detenute
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Corso di cucina vegana nel carcere di Parma: un percorso di riabilitazione per le persone detenute  

21/10/2016 


Migliorare i rapporti umani attraverso una relazione più rispettosa e sensibile con le altre specie è il principio che ispira diverse iniziative dedicate ai reclusi negli istituti di pena. La più recente inizierà venerdì 4 novembre, si chiama Cruelty free e consiste in un corso di cucina vegana. Organizzate dall’Associazione Parma Etica, le lezioni avranno luogo presso la Casa di reclusione di massima sicurezza di Parma.

Numerose le iscrizioni, sia per partecipare che per assaggiare i piatti (dolci, tortellini, maionese, rigorosamente privi di sacrificio animale), come pure si è registrato un pienone di presenze, nel giugno scorso, al carcere di Eboli, dove si è svolta la giornata pilota di un progetto creato dalla Cooperativa Dog Park di Ottaviano che coinvolge i detenuti nell’educazione di randagi in cerca di buona adozione.

Sempre di più l’amore per gli animali e l’interazione affettuosa si rivelano preziosi nei percorsi di riabilitazione dei carcerati e nella formazione a professioni future. Ma di questo principio fa carta straccia l’attuale direzione della Casa circondariale di Livorno, nel merito dell’isola carcere di Gorgona. Qui i detenuti allevano maiali, bovini, capre, stabilendo con loro rapporti di amicizia, salvo poi doverli accompagnare al mattatoio situato nella stessa località e collaborare a una parte della lavorazione delle loro carni.

Un paio d’anni fa, a coronamento di un percorso di sensibilizzazione, il direttore della prigione si era deciso a risparmiare la morte a una serie di animali particolarmente amati dai detenuti, e aveva approfittato di uno stop sanitario alle attività di macellazione per lasciar sperare che esse s’interrompessero in via definitiva.

Con il cambio di direzione, però, le uccisioni riprendevano, s’incrementava l’allevamento destinato alla produzione di carne e i cani che vivevano liberi sul territorio, accuditi dai carcerati, venivano rinchiusi in gabbia.

Un servizio televisivo del maggio scorso li mostrava tristi e macilenti, e documentava maiali non più a stabulazione libera ma costretti sul nudo mattonato in difformità ai dettami comunitari, cuccioli isolati dalle madri.

“Tra i cani nel recinto (un tempo randagi sull'isola, catturati e posti nell'attuale recinto dalla precedente Direzione)” spiega la direttrice Santina Savoca vantandosi dell’insensato imprigionamento “ve n’è uno molto anziano e provato da anni di randagismo. I maiali non sono detenuti su pavimento, ma nel rispetto della vigente normativa sul benessere animale sono allevati in box lavabili e sanificabili. La stessa Asl, nel check up periodico di pochi mesi fa, non ha avuto nulla da rilevare”.

Appunto, la Asl. E come si concilia la presenza di un macello all’interno di una zona carceraria? Perché al contrario non s'investe decisamente sul rafforzamento di empatia e solidarietà, come suggerito anche, nei mesi scorsi, da un pacifico sit in a Livorno?

“Si evidenzia che trattandosi di sezione di reclusione equiparata a colonia agricola vengono qui svolte tutte quelle attività che ruotano intorno ad un’azienda agrotecnica: allevamenti, coltivazioni, trasformazione dei prodotti” dice ancora la direttrice Savoca.

“Sono tutte attività tese a realizzare l’obiettivo primario dell’Amministrazione Penitenziaria che è quello di incrementare le possibilità lavorative dei detenuti al fine di facilitare il loro reinserimento sociale in ossequio ai principi costituzionali in materia e dell’Ordinamento Penitenziario”.

Peccato però che non sia dato sapere quanti detenuti, negli ultimi vent’anni, abbiano trovato lavoro in un macello o in un allevamento, e, nel caso, dove. Né viene accontentata la preghiera di conoscere i bilanci precisi di tale attività, che non sembra nemmeno di grande rilievo economico: “I prodotti di macellazione vengono utilizzati esclusivamente per autoconsumo da parte della popolazione detenuta e del personale dell’amministrazione penitenziaria della CC di Livorno e della Sezione distaccata di Gorgona. I proventi di questa attività vengono versati all’erario come da normativa vigente”.

Sembra insomma che il rapporto detenuto-animale sia sacrificato a piccoli interessi circoscritti, in barba a quello che potrebbe trasformarsi in un progetto illuminato e straordinario.

“Per quanto ci riguarda, riteniamo che il carcere possa e debba essere sempre più un luogo di cura e rieducazione all'empatia anziché un’esperienza punitiva sterile” dice Simonetta Rossi, vicepresidente dell'Associazione Parma Etica alla vigilia del corso di cucina vegana in carcere. “Il nostro progetto risponde all’esigenza di una nuova consapevolezza, uno scambio più giusto e intelligente con la vita che ci circonda, viene accolto come una vera opportunità proprio da molte di quelle persone che stanno percorrendo la dolorosa esperienza della reclusione”.

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